Intervista a Sasha Damiani, medica e formatrice, creatrice della community Mamme a nudo
Sasha Damiani è medica anestesista, si occupa di salute femminile, medicina di genere e comunicazione sanitaria, integrando ricerca, divulgazione e progettazione formativa.
È responsabile scientifica di Peer e docente di percorsi di formazione sulla comunicazione in ambito perinatale (tra cui proposte con Giunti Psicologia.io, Erickson e MeFirst), rivolti a professionisti che vogliono offrire un’assistenza rispettosa ed empatica a madri e genitori.
Qual è stata la genesi del progetto Mamme a nudo? C’è stato un momento preciso in cui ha sentito il bisogno esporsi e raccontare la maternità reale, anche nella sua fatica?
Il progetto Mamme a nudo è nato dalla mia esperienza personale di maternità, all’interno di un percorso professionale già legato da anni all’assistenza al parto, come anestesista.
Mi occupavo anche di violenza ostetrica e di comunicazione sanitaria, in particolare della relazione medico-paziente e della comunicazione tra professionisti. Erano temi che conoscevo bene, ma viverli in prima persona, come paziente, mi ha reso evidente quanto ancora ci sia da fare per migliorare la qualità della relazione di cura e garantire un’assistenza al parto realmente rispettosa.
Da qui è nato il desiderio di parlarne di più, di farlo “da dentro”, unendo la mia esperienza personale a quella professionale.
È un modo per mettere in luce le problematiche del sistema sanitario nazionale: dalla scarsa formazione sul tema della relazione di cura, al sessismo che pervade gli ospedali. Tutto questo lo sapevo già, ma con Mamme a nudo ho cercato di raccontare come, oltre a essere un problema in sé, diventi ancora più evidente nell’assistenza alla maternità.

Se la prima domanda riguarda la genesi del progetto, con la seconda vorremmo approfondire l’aspetto culturale legato alla rappresentazione della maternità.
Nel suo lavoro mette in luce la vulnerabilità della maternità proponendo una contronarrazione rispetto al mito del sacrificio e della maternità perfetta ed emerge una verità spesso taciuta: la maternità come esperienza ambivalente, dove convivono cura e rabbia, desiderio e perdita.
Pensa che la società sia pronta ad accogliere questa complessità o il mito della madre perfetta è ancora troppo radicato? E quali sono, secondo lei, i punti critici su cui è importante vigilare per emanciparsi da un ideale fittizio e culturalmente costruito?
Nella narrazione tradizionale, la maternità viene ancora spesso raccontata attraverso i filtri del sacrificio e dell’abnegazione. L’idea che il “genitore primario” sia la madre è ancora largamente diffusa, anche nei paesi scandinavi che pure sono considerati all’avanguardia.
In Italia, questo stereotipo è ancora molto forte: si sostiene che la centralità materna nei primi anni sia giustificata da motivi biologici; il corpo della donna partorisce, allatta.
Ma, in realtà, questa centralità va ben oltre i pochi mesi in cui è coinvolto il corpo biologico.
Lo dimostra il fatto che gli stessi stereotipi gravano anche sulle madri adottive: ciò che viene richiesto loro non dipende davvero dal corpo, ma da una costruzione culturale patriarcale che associa la donna al ruolo domestico e al “godimento della prole”. È un concetto non solo opprimente, ma anche anacronistico. Oggi le donne si trovano spesso costrette a un doppio lavoro: quello tradizionale e non retribuito di cura, più quello retribuito fuori casa. Gli uomini, pur avendo in molti casi un ruolo più attivo come padri, vengono ancora considerati una sorta di figura accessoria.
Basti pensare alla classica espressione “fa il mammo”. Il padre che si prende cura dei figli viene visto come un aiuto, non come un genitore alla pari. Questo ha ricadute enormi su tutta la società: si riflette nelle politiche del welfare, che parlano quasi esclusivamente di “congedo di maternità”; si ripresenta nel mondo del lavoro, dove le donne vengono considerate meno affidabili solo perché, prima o poi, potrebbero avere figli.
Il bambino stesso cresce in questa realtà: nasce da un progetto comune di una coppia, ma poi riceve assistenza principalmente da un solo genitore. Non è solo un’ingiustizia verso la madre, ma anche verso il bambino e verso il padre, che spesso è disposto a essere coinvolto, ma non trova spazi e riconoscimento. Lo si è visto chiaramente durante la pandemia, quando in molti ospedali i padri non potevano entrare nemmeno per assistere al parto o partecipare a un’ecografia. È come se venissero trattati da visitatori occasionali, quando non da intrusi.
Tutto questo si riflette anche nella formazione e nella pratica clinica.
Ancora oggi la salute materna è affrontata in termini riduttivi: si presta poca attenzione al recupero emotivo, alla salute mentale delle madri, alla ripresa sessuale e fisica dopo il parto. Si continua a ridurre la gravidanza a un fatto puramente biologico, ignorando la dimensione personale e sociale.
Un altro tema rilevante è quello della salute mentale perinatale. C’è un doppio standard culturale molto radicato: la maternità viene raccontata come un’esperienza che deve necessariamente essere vissuta con gioia, motivazione e istinto naturale. Si dà quasi per scontato che la madre sia da subito in sintonia con il bambino, e qualsiasi difficoltà emotiva diventa un tabù. Al contrario, per i padri si accettano con più naturalezza i momenti di smarrimento, di fatica o persino di distanza emotiva, come se avessero diritto a un tempo di adattamento.
Ma la relazione con figli non è diversa da altre relazioni: può esserci un colpo di fulmine, ma può anche non verificarsi; ci si può arrabbiare, sentire sopraffatti o persino pensare “chi me l’ha fatto fare?” Tutto questo è normale e sano, ma per le madri è spesso uno spazio negato: devono essere sempre all’altezza di un ideale impossibile.
Questo accade anche per via dei modelli assistenziali.
I professionisti sanitari che lavorano nel percorso nascita non sono immuni dagli stereotipi culturali, anzi, tendono a riperpetrarli. La pandemia ha accentuato un problema già presente: padri esclusi dal parto, dalle visite, dai corsi pre-parto. Anche ora, fuori dal contesto emergenziale, spesso nei corsi viene concessa la presenza del padre solo in un paio di incontri. Ci sono persino episodi in cui i padri vengono respinti dal pediatra se si presentano senza la madre. Sono segnali chiari di un’idea ancora dominante: la madre come figura primaria, il padre come “ospite”.
Eppure anche gli uomini finiscono per subire una forma di discriminazione: vengono considerati meno affidabili al lavoro se chiedono di prendersi cura dei figli o di usufruire di un congedo parentale. È come se la società non potesse accettare pienamente un padre che si occupa della propria prole.
Tutto ciò si riflette nelle politiche pubbliche, che faticano a concepire il ruolo genitoriale come condiviso. Le donne sono ancora gravate dal “doppio carico” e questo ha conseguenze economiche, sociali e psicologiche. Non si tratta solo di un problema individuale, ma sistemico.
Per quanto riguarda la salute materna, la formazione del personale sanitario dovrebbe essere il primo passo da affrontare. Già dall’università sarebbe necessario un percorso che decostruisca gli stereotipi di genere e che insegni una medicina centrata sulla persona, non su un prototipo universale. In ambito sanitario, non basta conoscere l’anatomia o la farmacologia: serve sapere comunicare, ascoltare e rispettare.
A questo proposito, nel suo progetto emergono anche temi legati all’esperienza medica della maternità, dal parto al post partum, fino al rooming-in e alla gestione del recupero fisico ed emotivo delle madri. Quali sono, secondo lei, le criticità ancora presenti nel sistema sanitario in relazione alla salute materna e alla medicina di genere? E quali passi ritiene fondamentali per costruire una sanità più empatica, informata e rispettosa dei tempi e dei bisogni reali delle donne?
Riguardo alla medicina di genere, la situazione italiana è complessa.
La formazione di base in medicina ignora ancora del tutto la dimensione di genere. Si studia la “medicina universale”, che in realtà è la medicina degli uomini. Se ne parla soltanto alla fine del percorso, o addirittura dopo, nei master o nei corsi di aggiornamento. Ma è tardi: la medicina di genere dovrebbe essere insegnata fin dall’inizio; essere parte integrante del modo di pensare e di fare medicina.
Le differenze biologiche, ormonali, psicologiche e sociali tra uomini e donne impattano profondamente sulla diagnosi e sul trattamento di molte malattie. Ignorarle significa dare risposte cliniche incomplete e talvolta dannose. Esistono diverse fasi della vita femminile, come la perimenopausa e la menopausa, che sono completamente trascurate. Questo avviene sia per un problema di genere, perché la salute delle donne interessa poco, sia per un problema di età: le persone sopra i 45-50 anni sono viste come meno rilevanti, e se sono donne lo sono ancora meno.
Alcuni cambiamenti si stanno muovendo. Esistono corsi post-laurea e master che si occupano di genitorialità in modo più inclusivo, considerando anche i padri, genitori non biologici o famiglie non binarie. Tuttavia, si tratta ancora di iniziative sporadiche: dovrebbero essere parte integrante e trasversale della formazione sanitaria, in particolare quella medica.
Un altro passo necessario riguarda la destrutturazione del sessismo interno al sistema sanitario. Anche se il 70% del personale sanitario è costituito da donne, i ruoli apicali sono ancora occupati in prevalenza da uomini. Tutto questo produce una cultura lavorativa in cui una donna incinta può essere vista come un peso, una risorsa che “complica” l’organizzazione. Il risultato è che la stessa operatrice sanitaria, quando diventa madre, subisce quegli stessi stereotipi e può involontariamente perpetuarli.
Infine le chiedo: che tipo di reazioni ha ricevuto dalle donne coinvolte nel progetto, ma anche dal personale medico o dal pubblico più ampio? Ci sono state risposte che l’hanno sorpresa o che le hanno fatto comprendere quanto ancora resti da fare sul piano culturale e istituzionale rispetto alla salute femminile e alla medicina di genere?
Per quanto riguarda le reazioni al mio lavoro con Mamme a nudo, devo dire che alcuni temi suscitano sempre forti risposte emotive. Di conseguenza, è difficile trattare certi argomenti in maniera neutrale, soprattutto sui social.
C’è quasi sempre il bisogno di schierarsi, di giudicare le scelte altrui, di etichettare tutto come “assolutamente giusto” o “assolutamente sbagliato”. Questo accade per esempio sulle questioni dell’allattamento, della medicalizzazione del parto o della violenza ostetrica.
Io cerco di riportare questi temi su un piano più umano e meno ideologico: non tutte le scelte sono universali e nessuna esperienza è valida per tutte. Ma quello che mi ha colpito è stato vedere quanto anche molt* professionist* sanitari* abbiano sentito il bisogno di parlare di sessismo ospedaliero, di discriminazioni interne e di mancanza di formazione sulla relazione di cura.
Quando ho lanciato dei questionari anonimi, tantissime persone hanno raccontato episodi di sessismo e discriminazione. Questo mi fa pensare che esista una volontà vera di cambiamento all’interno del settore, anche se è ancora molto difficile da realizzare.
Purtroppo la narrazione della maternità risente ancora di molti tabù. Se ne parla quasi sempre in chiave positiva, come un’esperienza piena e naturale. Ma chi diventa madre scopre presto che la normalità è fatta anche di difficoltà, di fatica emotiva, di aspetti che non coincidono con quella narrazione idealizzata. È importante smontare quell’immaginario che impedisce alle donne di dire che qualcosa non va, di chiedere aiuto, di ammettere che non tutto è come se lo aspettavano.
Lo stesso vale per l’allattamento: è visto come un gesto naturale e gratificante, ma tante donne fanno i conti con difficoltà tecniche, fisiche, o semplicemente scoprono che non fa per loro. E non esiste uno spazio in cui poter dire liberamente: “per me è difficile”, “non mi piace”, o “non lo voglio”. Sono tutte esperienze comuni, ma che non vengono raccontate. In questo modo le donne pensano di essere un’eccezione, si sentono inadeguate e soffrono in silenzio.
Credo che raccontare queste realtà sia fondamentale: per normalizzare il vissuto delle madri e per costruire una maternità più libera, autentica e più condivisa.
Sasha Damiani intervistata da Laura Bergamaschi, SCU AICS Bologna